Note di speranza in Palestina
  di Francesco Galtieri   >

Viaggio musicale in Medio Oriente
con approdo al Conservatorio Nazionale di musica

Parto Sabato 30 Gennaio

per un viaggio per conto del Coordinamento delle Scuole Popolari di Musica. La trasferta nasce con l’obiettivo di verificare le possibilità per sostenere attraverso il nostro lavoro di musicisti ed operatori culturali l’opera dell’Ufficio della Pace del Comune di Roma in M. O. e per avviare un permanente scambio culturale e soprattutto musicale con le principali Istituzioni dell’aerea.
Con gli amici dell’Ufficio della Pace ci siamo divisi i primi obiettivi di carattere “sociale”: il Coordinamento ospiterà dopo Pasqua a Roma due studenti di musica palestinesi e l’Ufficio collaborerà ad organizzare un evento a Roma tra allievi musicisti palestinesi ed israeliani.
In quella terra è difficile scindere gli aspetti tecnici- didattici da quelli sociali.
Arrivo in piena notte all’aeroporto di Tel Aviv, non faccio in tempo a scendere dalla scaletta dell’aereo che un signore della sicurezza mi “sceglie” tra altri passeggeri. Mi ferma e cortesemente mi chiede chi sono, che sono venuto a fare in Israele, dove dormo e chi conosco. Con il mio inglese pessimo mi faccio capire e certo mi aiuta un biglietto con i recapiti di Micky, la pianista israeliana che mi ospiterà a Kochav Yair. Dormirò infatti a casa sua, in un insediamento ebraico vicino a Tel Aviv (ma vicinissimo a Qalqliya cittadina palestinese dalla quale sono partiti numerosi kamikaze). Dopo altri 3 o 4 controlli dove domande e risposte si ripetono quasi stancamente vado finalmente al terminal e successivamente a dormire (passando ad un check point all’ingresso della cittadina). I 2 giorni successivi sono dedicati a osservare lezioni di musica negli asili nido di Tel Aviv (sono tutti privati!) nel filone della Early Childood Music Americana e ad allacciare i primi contatti con le Istituzioni Musicali Israeliane. Un giro serale per Tel Aviv (passo accanto alla lapide posta dove fu assassinato I. Rabin) con cena al ristorante (un po’ di ansia, ma non si respira paura).

In questi giorni scopro molte cose, in particolare analogie culturali profonde fra i due popoli in “guerra”. Ad esempio l’ebraico, così come l’arabo si legge da destra a sinistra, mentre la musica si legge da sinistra a destra con sommo dispiacere di cantanti che devono leggere un testo che segue lo spartito da sinistra a destra essendo abituati a leggere al contrario.
E’ straordinario come in un clima pieno di tensione, riesco dopo pochissimo anche io ad abituarmi: vado in un centro commerciale e nonostante le decine di controlli all’ingresso e all’uscita, i metal detector, le guardie armate ecc. non ho la sensazione di paura. Semmai mi si rinforza la convinzione personale che non ci sarà altra via d’uscita che il dialogo e la pace, nonostante la sedimentazione dell’odio che cresce. Noto con piacere che, tra l’altro i Cd costano un po' di meno che in Italia. Percepisco che odio, razzismo e sospetto verso l’altro crescono di giorno in giorno, ma mi sembra una situazione insostenibile a medio e lungo termine pena la cancellazione di una delle due entità tra il popolo israeliano e quello palestinese. Percepisco la fuga dalla realtà come mezzo per non sopportarne il peso: in Israele Sharon ha appena stravinto le elezioni nonostante non sia particolarmente “amato” dalla sua gente e nelle aree palestinesi occupate militarmente dall’esercito israeliano, tanto per fare un solo esempio, 9 donne su 10 girano con il velo, qualcuna perfino con il burka. E solo due anni fa, come mi conferma Carla Benelli, ricercatrice che sta lavorando al restauro di mosaici preislamici a Jerico, il rapporto era inverso. La speranza rinasce con la consapevolezza di Stephen, tassista palestinese che mi dice “ quando la situazione si fa pesante e brutta, la gente si rifugia nella religione per mettersi l’anima in pace e non impegnarsi nella risoluzione dei problemi”, o quello che mi dice Ben ricercatore informatico israeliano a proposito della imminente guerra in Iraq “ Bush va avanti per la sua strada senza sentire ragioni, ma le conseguenze poi chi le pagherà?”

Dopo aver fissato gli appuntamenti con Veronica Cohen, direttrice del dipartimento di Educazione alla musica della Music Rubin Academy di Gerusalemme, con Rivkra Elkoshi una docente “Schulwerkiana” della prima ora del Lewinsky College di Tel Aviv e con la direttrice Eva Pitlik del Conservatorio Municipale di Petach Tivka, parto con l’autobus (oh, mamma mia) per Gerusalemme. Ogni tanto qualche militare con il mitra sale a bordo da un occhiata controlla e scende. Arrivo a Gerusalemme: è magnifica, ma l’aria è pesante.
La stazione centrale degli autobus è sotterranea. Sceso dal pullman trovo un nuovo posto di blocco con metal detector e le solite domande per accedere alla città. ( in realtà aggiungono un inconsueto e bizzarro "Do you have a gun ?" alla quale rispondo perplesso dopo attimi di smarrimento pensando di non aver capito). Gerusalemme è bellissima, ed è un mix straordinario di usi e costumi. In alcuni angoli sembra di essere nel mezzo di un vecchio film di Woody Allen con giovani ortodossi ebraici con vestito e cappello nero e barba lunga. Un taxi (mi accorgo dopo di essere stato “fregato“ cosi come peraltro accade a molti turisti a Fiumicino) mi porta al Notre Dame Guest House, un albergo gestito dal Vaticano, “isola” posta nella linea di demarcazione tra Gerusalemme Est ed Ovest e a trenta metri della città vecchia. Mi accorgo che anche nelle piccole cose l’aria è pesante: a seconda delle zone nelle quali mi devo recare per gli incontri avrò tassisti di nazionalità differente. Arabo, per esempio, per andare al consolato Italiano di Gerusalemme Est, Israeliano per andare all’analogo ufficio nella zona Ovest, distanti fra loro solo due o tre chilometri.
Incomincio gli incontri con il rammarico di non poter visitare con calma la città vecchia dove Muro del Pianto, spianata della Moschea, Santo Sepolcro, quartiere armeno e ortodosso, il suk – il tradizionale mercato arabo - stanno raccolti tutti in poche centinaia di metri.
Ovviamente anche per entrare nel Campus, nella zona Ovest, che ospita al suo interno la Rubin Music Academy passerò da reiterati posti di controllo. In alcuni momenti sembrava di essere immersi nella famosa scena di “Non ci resta che piangere” con Troisi e Benigni – chi siete ? Che volete ? Un fiorino.
Veronica Cohen è straordinaria ed è entusiasta sia delle proposte di cooperazione con Roma sia delle ipotesi che prevedono un lavoro comune con musicisti Palestinesi.
Incontro così, tramite una sua vecchia allieva Padre Armando Pierucci direttore del Magnificat Institute (presso il convento di S. Salvatore nella città vecchia di Gerusalemme). Finalmente qualcuno che parla Italiano. Padre Armando, già allievo di L. Ciriaco (si, lo stesso che ci ha tormentato come esaminandi di solfeggio) mi spiega, come nella sua scuola sia frequentata da molti pianisti di qualità, per lo più da giovani allievi arabo-israeliani e palestinesi. A Gerusalemme si può essere israeliani, arabo-israeliani, palestinesi o indefiniti, poiché da diverso tempo c’è un ritiro delle Carte d’Identità agli arabi per non far stravolgere gli equilibri demografici.
Qui inizia la parte più difficile ma emozionante del viaggio e degli incontri. Mi spiegano che il Conservatorio Nazionale di musica palestinese ha la sua sede centrale a Ramallah, che pur essendo distante poco più di 20 km. visti i check point ecc, la strada interrotta ecc. mi sarebbe quasi impossibile andare e tornare nell’ambito di una sola giornata. Per fortuna, grazie all’aiuto di un docente Americano dell’università Palestinese di Bir Zeit, riesco ad avere un appuntamento con Suhail Khoury, direttore del Conservatorio, che sta in città in quella giornata.
Il docente americano, molto affabilmente mi spiega altresì che l’ipotesi di far “suonare insieme” palestinesi del conservatorio ed israeliani è impensabile e soprattutto improponibile ai dirigenti del Conservatorio stesso. Dopo due anni della nuova Intifada, della occupazione militare e di attentati, la vita di insegnanti e studenti non è semplice affatto. In una incursione la sede di Ramallah è andata parzialmente alle fiamme, i docenti vengono spesso arrestati o fermati, e pure i bambini non hanno vita facile.
Ed allora decido di andare con maggiore impegno dentro il conservatorio palestinese per capire le difficolta, certo non paragonabili a quelle delle analoghe strutture Israeliane per certi versi più all’avanguardia nel campo della ricerca e dell’organizzazione rispetto ai nostri Conservatori od istituzioni private di prestigio. Per fare un esempio in Israele ci sono innumerevoli cori per bambini il cui livello tecnico è ineccepibile, passano da canti Yemeniti a Bartok, da Bernstein a canti tradizionali spagnoli con una disinvoltura non frequente dalle nostre parti. La situazione è drammatica per tutti: un giovane israeliano nella migliore delle ipotesi fa una vita militarizzata, farà TRE anni di servizio militare, forse non può uscire di casa la sera, ma riesce ad avere comunque delle opportunità in campo musicale (ma non solo) che un livello di benessere “europeo” può garantire. Dall’altra parte l’occupazione militare ed una situazione economica senz’altro quanto meno disastrosa rendono la vita impossibile a molti palestinesi e a molti arabi.
Non voglio dare un giudizio politico, è che stando lì ho avvertito l’importanza che Istituzioni quali il NCM possono avere non solo in campo squisitamente tecnico didattico, ma anche in quella di strappare alla disperazione centinaia di giovani.

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