Giovanni Piazza
Alcune linee-guida del percorso pedagogico
dell’OSI – Orff-Schulwerk Italiano

© 2006 Giovanni Piazza
Un po’ di storia e di metodologia
Prima fase
Seconda fase
Terza fase
La rielaborazione italiana
Una traccia metodologica


Pluri- e Interdisciplinarietà: corpo, parola, strumento
Il corpo
La voce
Lo strumento
Area visiva


Natura e funzione della prima improvvisazione in ambito didattico schulwerkiano

La composizione elementare

Rovesciamento dell’approccio: campi garantiti e “no error”

La “reinvenzione” degli strumenti a barre
Composizione ritmica
Pentafonie


Performance, ensemble, folclore
La performance
L’ensemble integrato

Uso del folclore, ovvero: qual è oggi il nostro “popular”

Quale insegnante?

UN PO’ DI STORIA E DI METODOLOGIA


Orff-Schulwerk: letteralmente, Opera didattica di Orff. Non un metodo, dunque, come in Italia ancora comunemente e per praticità lo si definisce, ma piuttosto una metodologia didattica o, ancor meglio, una linea pedagogica, che si è delineata nell’arco di svariati decenni ed è tuttora in costante evoluzione. "Lo Schulwerk non nacque da un piano preordinato - un piano così esteso non avrei potuto nemmeno immaginarlo - ma da una necessità che io riconobbi come tale”(1). La necessità primaria, stimolata dalle rivoluzionarie esperienze coreutiche e musicali della prima metà del ‘900, era quella di superare la separazione fra musica e danza, che ancora sostanzialmente sussisteva anche in quelle proposte didattiche che pure avevano stabilito una più stretta interrelazione fra le due aree espressive. Orff mirava invece a “…una reciproca compenetrazione e completamento dell’educazione al movimento e alla musica” (2) . Nei fatti l’Orff-Schulwerk si sviluppò gradualmente, a partire da precise intuizioni, attraverso una successione esperienze che si articolarono in tre grandi fasi.

Prima fase - La prima di queste fasi si attivò nel 1924 con la fondazione a Monaco di Baviera della Güntherschule (dal cognome di Dorothée Günther (3), prima collaboratrice di Orff): una scuola di ginnastica, musica e danza che prese avvio con un gruppo di allieve fra i 18 e i 22 anni che ne sarebbero uscite o come danzatrici o come insegnanti. L’attività, distribuita su un arco di due o tre anni, è eminentemente sperimentale e dedica grande spazio all’improvvisazione, mirando a una formazione che metta in grado le allieve di diventare, allo stesso tempo, musiciste e danzatrici. Più ancora: creatrici delle proprie musiche e delle proprie coreografie. Rispetto all’obiettivo “artistico” (4)prevalse rapidamente l’obiettivo didattico, ristretto tuttavia ai settori della musica strumentale, realizzata con strumenti prevalentemente esotici, e dell’espressione motoria. “A parte qualche stentato esperimento – ammetterà Orff – nella Güntherschule non avevamo mai riconosciuto al canto e alla parola i loro veri diritti”. (5)
Nell’arco di questa più che decennale esperienza viene progettato e realizzato lo Strumentario a barre: quell’insieme di glockenspiele, metallofoni e xilofoni a barre estraibili che diventa il corpo intonato della strumentazione didattica orffiana. Nel frattempo a Orff si è affiancata Gunild Keetman (6), che ne diventerà la collaboratrice più fedele soprattutto nel portare l’esperienza schulwerkiana verso il naturale destinatario: il bambino. Già all’inizio degli anni ’30 Orff comincia a pensare di “utilizzare le esperienze raccolte istruendo alla musica i giovani della Güntherschule, quale insegnamento elementare per l’educazione musicale infantile”. (7)Il progetto dovrebbe realizzarsi a Berlino ma l’epurazione di Leo Kestenberg, ebreo, Referente per la musica presso il Ministero della Scienza delle Arti e dell’Istruzione popolare e convinto sostenitore del progetto, manda tutto a monte. La Güntherschule continua nella propria attività, ma Orff, assorbito dalla composizione, se ne distrae. Sottoposta prima a vessazioni da parte del regime nazista, la Scuola finisce poi materialmente distrutta sotto un bombardamento alleato nel gennaio del 1945.

Seconda fase -
La seconda fase di esperienza ed elaborazione prende avvio con la richiesta, inoltrata a Orff nel 1948, da parte della Radio Bavarese, di curare un ciclo di quattordici trasmissioni dedicate allo Schulwerk, da irradiare nelle scuole con lo scopo di fornire modelli musicali a misura di bambino. Orff e la Keetman preparano le puntate radiofoniche con un gruppo di ragazzi fra gli otto e i dodici anni, quindi con un notevole abbassamento dell’età, rispetto alla Güntherschule. I modelli di attività musicale così prodotti e trasmessi vengono ripresi o rielaborati nelle scuole dotate del minimo indispensabile di strumentario, del quale nel frattempo è stata avviata la produzione su scala industriale. “Dei bambini facevano musica con e per altri bambini. Il modello proveniente dall’altoparlante aveva solo bisogno di essere imitato e più tardi ulteriormente sviluppato”. (8) Il successo fu tale che le trasmissioni proseguirono per oltre cinque anni, e vennero in seguito riprese, dando luogo alla formazione di gruppi musicali scolastici schulwerkiani ed anche a un concorso fra i piccoli ascoltatori per l’invenzione di una melodia pentatonica con accompagnamento strumentale su testo popolare dato.
Fu la grande rivincita della parola e del canto, che nella Güntherschule erano stati pesantemente mortificati. Come in una sorta di contrappasso toccò al movimento e alla danza restare esclusi, visto che il mezzo radiofonico non poteva consentirne l’impiego, al di là di qualche accenno all’utilità che alla musica vocale e strumentale venisse unita, ove possibile, la danza. Fu come una grande esperienza complementare alla precedente, come una integrazione a distanza di tempo di ciò che era stato inizialmente trascurato, che dette anche luogo all’introduzione ampia e sistematica della tradizione popolare.E fu anche il momento in cui, in seguito alla pubblicazione dei materiali prodotti nel corso dell’esperienza radiofonica, lo Schulwerk incappò nell’equivoca definizione di Metodo. I testi ritmati, i canti, i cori parlati, i brani strumentali, gli spunti di improvvisazione ritmica e melodica prodotti per il ciclo di trasmissioni vennero infatti ordinati progressivamente nei cinque volumi principali dell’edizione originale tedesca dell’Orff-Schulwerk- Musica per bambini.E fu abbastanza comprensibile che essi venissero utilizzati non come una raccolta di modelli per elaborazioni proprie, ma come una antologia di difficoltà progressiva da far imparare ed eseguire. Già in passato, all’epoca di una delle prime pubblicazioni nate dall’esperienza della Güntherschule, Orff aveva rilevato e criticato questa tendenza.“Purtroppo gli Esercizi ritmico-melodici, che vogliono solo offrire materia prima, vennero spesso malintesi e utilizzati come Libro di testo, da cui prendere un pezzo dopo l’altro per studiarlo ed eseguirlo. Ciò misconosce completamente il senso della pubblicazione. Che intende e richiede non la riproduzione da spartito, ma il libero far musica, al quale lo scritto deve servire solo come suggerimento e stimolo”. (9) E’, in qualche misura, il rischio inevitabile di qualsiasi modello, anche il più sperimentale, nel momento in cui esso viene consegnato alla pagina scritta. Tuttavia, risalendo al momento del fallito progetto berlinese, è possibile ritrovare il segnale di un tentativo volto a contrastare questo rischio involutivo. Infatti, alla ventina di fascicoli di esercizi esclusivamente strumentali fino ad allora pubblicati, (10) dovevano far seguito, oltre a un fascicolo di Musica per bambini, un fascicolo di Musica di bambini (la sottolineatura è redazionale). Il di in luogo del per sottolinea una intenzione pedagogica molto più avanzata, che scompare però dalla testimonianza editoriale dell’esperienza radiofonica.

Terza fase -A due fasi di esperienza e sperimentazione così ampie e complementari non mancava che venire accomunate e integrate in una nuova fase di elaborazione pedagogica. Questa grande sintesi venne avviata – alla fine degli anni 40 - dalla richiesta dell’allora direttore del Mozarteum di Salisburgo - Eberhard Preussner amico e sostenitore di Orff già all’epoca del progetto berlinese – di impegnare Gunild Keetman nella realizzazione di corsi per bambini, inizialmente fra gli otto e i dieci anni. Un modello ante litteram di quelli che furono i corsi di Propedeutica musicale in alcuni conservatori italiani a partire dagli anni ’70..  L’attività della Keetman prende avvio a partire dal 1949 e apre la strada, evolvendosi nel corso del successivo decennio, alla costituzione, all’inizio degli anni ’60, dell’Orff-Institut, oggi Dipartimento per la Pedagogia della Musica e della Danza del Mozarteum. E’ il passo decisivo verso una sperimentazione unitaria della molteplicità di esperienze svolte fino a quel momento. “Ora per la prima volta veniva offerta la possibilità di praticare l’insegnamento dello Schulwerk completo in ogni sua dimensione, così come noi lo immaginavamo”. (11) L’età dei destinatari si abbassa sempre di più fino a raggiungere quella pre-scolare e l’attenzione viene puntata, più che sui materiali, sulle tecniche e sui percorsi di insegnamento, sulla loro sempre più attenta differenziazione in base alle esigenze dell’età evolutiva. Grazie a collaboratori di sempre indiscussa validità e sulla scorta delle crescenti novità fornite dalle ampie ricerche svolte internazionalmente in campo psico-pedagogico e pedagogico musicale, lo Schulwerk si arricchisce continuamente di nuove esperienze e di nuove proposte. A questo arricchimento contribuisce la rapida e vasta diffusione internazionale di cui viene a godere lo Schulwerk, a partire dalla pubblicazione dei volumi tedeschi e dalla fondazione dell’Istituto, con il decisivo apporto che, nella pratica e nell’”immaginario” didattico, fornisce lo strumentario a barre. Il che non toglie che ne sussistano – ancora oggi - interpretazioni di tipo più “tradizionalistico”, a volte anche decisamente restrittivo, che mirano più all’esecuzione che alla creazione.E’, in qualche modo, il pedaggio che paga una pratica didattica non rigidamente vincolata a itinerari e regole (come sarebbe, appunto, un “metodo”) e che lascia invece spazio alla attualizzazione pedagogica e all’inventiva personale. “Risale ad antica esperienza – scrive Orff - il fatto che una pianta selvatica cresca in modo particolarmente robusto, mentre è più facile avere delusioni da coltivazioni allestite secondo regola”. (12) In questa visuale, purché nel rispetto di alcuni inalienabili fondamenti della linea pedagogica orffiana (di cui di seguito si tratterà più ampiamente), è consentito ravvisare oggi nello Schulwerk “… non più soltanto l’opera didattica di Orff e della Keetman, ma un po’ di tutti coloro che sanno servirsene in modo personalmente creativo e pedagogicamente corretto”. (13)
Questa apertura, il fatto di riallacciarsi a esperienze legate ad altre proposte didattiche e di implicarne alcune procedure – in origine quelle di Jaques-Dalcroze e di Kodály – ha dato anche luogo a qualche accusa di “appropriazione indebita”: quasi che lo Schulwerk tendesse a fagocitare altre esperienze pedagogiche, a plagiare opere altrui. Ma non è così. Più obiettivamente, lo Schulwerk “ …vuole sempre in ognuna delle sue fasi offrire motivo di stimolo per un proseguimento creativo autonomo; così esso non è mai definitivo e concluso ma sempre, in evoluzione e in divenire”. (14) E’ dunque già nelle premesse dello Schulwerk il fatto di essere aperto in modo scambievole al mondo delle esperienze, di assumerle e rielaborarle secondo una propria visuale. Il che, oltre a confermarne il carattere di “non metodo”, spiega forse uno dei perché della grande diffusione di cui gode. D’altra parte, proprio in ambito didattico attivo e creativo, nulla appare meno produttivo che la reciproca chiusura di “metodi”  ciascuno dei quali ritenga di possedere la chiave di una corretta pedagogia.   

La rielaborazione italiana -
In questo flusso di costante evoluzione si inserisce, alla fine degli anni ’70, l’edizione italiana dell’Orff-Schulwerk rielabolata da Giovanni Piazza. Non una “traduzione” dell’originale (come spesso viene erroneamente detto) ma una rielaborazione tarata sulle esigenze della situazione didattica italiana di allora. E’ Orff stesso che già da alcuni anni vuole che le edizioni internazionali dello Schulwerk non siano “fotocopie”, pure e semplici traduzioni ritmiche dei testi dell’originale, ma vengano adeguate all’esigenza didattica dell’uno o dell’altro Paese, utilizzando anche materiali folclorici locali. Su questa linea si sono già orientate l’edizione céca e quella spagnola. In Italia l’Educazione musicale, introdotta nella scuola media nel 1962 con un’ora settimanale, è prevalentemente legata a modelli provenienti dal conservatorio. Nel 1969 nasce, per iniziativa di Carlo Delfrati, la SIEM (Società Italiana per l’Educazione Musicale), che comincia ad occuparsi seriamente della promozione e dello svecchiamento della didattica musicale italiana, introducendo anche, nel 1970, una prima esperienza orffiana nell’ambito del Campo Musicale di Fermo. (15) Le esperienze schulwerkiane sono ancora molto rare, le idee in merito non così chiare, e solo nel 1979, in concomitanza significativa seppure imprevista con l’uscita del primo volume dello Schulwerk italiano, nasce a Verona il SIMEOS (Società Italiana di Musica Elementare Orff-Schulwerk).
In questo contesto generale la scelta italiana si orienta, in pieno accordo con Orff, non alla realizzazione di una antologia di musiche per bambini misurate su uno strumentario non ancora sufficientemente conosciuto né diffuso, ma alla esposizione di un tracciato metodologico che dia conto delle proprie origini, dei propri presupposti, dei propri possibili percorsi. Una esposizione che mira a indicare “come” strutturare una lezione, un progetto didattico, piuttosto che a fornire materiali d’uso che in maggior parte non si saprebbe ancora come impiegare. A fornire, insomma, ciò che manca – ovviamente in prospettiva schulwerkiana – alla formazione e all’esperienza dell’educatore musicale dell’epoca, con l’obiettivo di contribuire a far crescere una figura di insegnante creativo, capace di sviluppare autonomamente una linea progettuale, che trovi in se stesso il proprio “metodo”. Si tratta, dunque, una vera rielaborazione ad hoc della materia schulwerkiana, e non di una “traduzione” antologica degli originali tedeschi. Da quel momento Giovanni Piazza avvia ed estende sempre più, su richiesta di Associazioni, Enti Locali, Istituzioni sia in Italia che all’Estero, da solo o in collaborazione con didatti della attività motoria e coreutica e della vocalità, una attività seminariale attorno alla quale si raccolgono e si formano via via operatori che si riconoscono nella linea pedagogica orffiana. Dopo circa un decennio, in collaborazione con due Scuole popolari di musica romane (Insieme per Fare e Donna Olimpia), viene attivato il corso “Metodologia e pratica dell’Orff-Schulwerk” che acquisisce rapidamente dimensione nazionale e che, qualche anno dopo, in collaborazione con la SPM Donna Olimpia, diventa il “Progetto Orff-Schulwerk”, entro il quale operano alcuni fra i più valenti didatti formatisi con Giovanni Piazza.La risposta costantemente positiva che il Progetto suscita, pone l’esigenza di un luogo di “rappresentanza”, di raccordo e informazione, oltre che di promozione e diffusione. Esigenza da cui nasce, nel maggio 2001, l’associazione “OSI - Orff-Schulwerk Italiano”. La crescente diffusione dell’attività seminariale esterna ad opera dei docenti del “Progetto” sviluppa rapporti sempre più stretti con altre Associazioni musicali nazionali. E’ così che, nel 2005 nasce il Forum organizzativo dell’OSI cui aderiscono Associazioni interessate ad una collaborazione che si concreta in attività decentrate seminariali ed oltre. Allo stato delle cose l’OSI mira a ottenere riconoscimenti sempre più qualificati fino al possibile inserimento di una specializzazione schulwerkiana in ambito istituzionale.

Una traccia metodologica - Volendo esporre un quadro concettuale e metodologico di ciò che noi, oggi, intendiamo per Orff-Schulwerk, possiamo sintetizzarlo come segue:
a) alla musica ci si accosta facendo musica e non cominciando con l'imparare le note, le quali non sono che la registrazione grafica delle nostre invenzioni sonore, e come tali ne sono una conseguenza e non una premessa; il primo apprendimento della musica, incluso l'avvio alla lettura e alla scrittura della notazione, scaturisce sempre dall'esperienza musicale e nasce quindi da un approccio esplorativo e sperimentale, non da premesse astratte e teoriche;
b) la musica, soprattutto nella fase del primo apprendimento, non è separabile dalle altre attività espressive (linguaggio, gesto, immagine, danza); tali attività si intersecano, si associano, si confrontano, mutuano spunti l'una dall'altra, trovando la massima coesione nell'approccio fantastico e creativo e impiegando come materiale tutto ciò che appartiene al loro potenziale comunicativo: suono corporeo, verbale, vocale e strumentale, linguaggio e canto, gesto, passo, movenza, mimica; il tutto confluisce in modelli di performance (drammatizzazione, pantomina, coreografia, teatro-musica) che rappresentano l'esito naturale della pedagogia orffiana e che vanno intesi non già come riproduzione di eventi preordinati ma come rappresentazione organizzata della propria esperienza artistica, individuale e collettiva, oltre che come dimostrazione delle competenze contestualmente acquisite;
c)la pratica dell'improvvisazione e della composizione elementari, l'elaborazione in prima persona di strutture e forme sonore adeguate via via ai diversi stadi dell'evoluzione psicomotoria, attuate mediante sperimentate tecniche metodologiche e col sussidio di uno strumentario didattico concepito ad hoc (lo strumentario Orff, perfettamente integrabile con strumenti d'arte e d’uso - archi, chitarre, fiati, tastiera elettronica, basso elettrico, ecc.) restituisce al bambino il suo ruolo di effettivo protagonista, soggetto e non oggetto dell'azione educativa;
d) l'attività musicale è collettiva e mira, oltre che a tradurre l'esperienza musicale in apprendimento, a contribuire alla formazione complessiva della persona, alla sua socializzazione, allo sviluppo delle sue capacità intellettive e creative, all'allenamento ed all'affinamento delle sue facoltà psico-motorie, e diventa, in tale prospettiva, un mezzo oltre che uno scopo;
e) da ogni esperienza musicale discendono le adeguate fasi di riflessione estetica, formale e storica, le prime acquisizioni tecnico-esecutive e le necessarie deduzioni di stampo teorico-razionale, sempre nel rispetto del momento evolutivo degli allievi con cui si lavora; ciò conduce ad una conoscenza molto ben interiorizzata - in quanto personalmente sperimentata - non solo delle diverse musiche possibili ma del fenomeno musicale in sé.
Volendo esprimere i medesimi contenuti in forma più assiomatica, possiamo indicare i presupposti della pedagogia orffiana mediante le seguenti proposizioni "a contrasto":
- la concretezza dell'esperienza musicale (contro le ancor oggi abituali astrazioni didattiche);
- la sua stretta fusione con i mezzi espressivi della voce e del corpo (contro la divisione in specificità di genere troppo rigide);
- la spinta all'elaborazione creativa personale, attraverso l'improvvisazione e la composizione elementare (invece della mera riproduzione di musiche pronte);
- l'elementarità (cioè la prototipicità) dei modelli musicali, e con ciò l'ampia adozione di materiali popolari e multietnici, l'uso di bordoni, ostinati, delle pentafonie e della modalità (contro l'uso di musiche colte semplificate ad uso infantile o a carattere armonico-tonale troppo schematico e assolutistico);
- il percorso dall'esperienza alla conoscenza musicale, e non viceversa: quindi l'uso di musiche diverse comprese quelle dell'esperienza quotidiana: il rock, il popular, ecc. (contro la restrizione dell'apprendimento musicale all'area e alle regole della musica 'colta');
- l'utilizzo primario di strumenti d'uso accessibili, a produzione sonora diretta, adatti ad un rapporto corporeo immediato e coinvolgente (invece che strumenti tecnologicamente evoluti o a produzione sonora mediata e complessa);
- lo sbocco naturale di tutto questo in pratica collettiva e forme di drammatizzazione scenico-musicale (piuttosto che l'esercitazione solitaria e l'esibizione solistica).
Come da tutto ciò si evince, la linea pedagogica schulwerkiana si concreta in primo luogo in una “didattica dei percorsi strutturabili” che implica obiettivi, e non in una “didattica degli obiettivi” da raggiungere tramite percorsi pre-strutturati. Poiché là dove predominasse l’obiettivo verrebbe inevitabilmente forzato il percorso.Mentre a noi interessa la qualità e la ricchezza dei percorsi senza mirare ad obiettivi uguali per tutti. Obiettivi che, specialmente in ambito musicale, sarebbero assai difficili da ottenere. Sicuramente una certa quantità di obiettivi basilari e comuni va perseguita ma lasciando lo spazio a chi mostra maggiore attitudine e trovando sempre lo spazio per chi ne ha meno, incluso l’inserimento del diversamente abile. Potremmo dire che la nostra vuole essere una “didattica dei percorsi comuni” mirante a “obiettivi differenziati” invece che una “didattica degli obiettivi comuni” attraverso “percorsi obbligati”.

PLURI- E INTERDISCIPLINARIETA’: CORPO, PAROLA, STRUMENTO

L’Orff-Schulwerk si potrebbe definire “naturalmente interdisciplinare”: nel senso che una linea pedagogica che muove dall’obiettivo di giungere a “…una reciproca compenetrazione e completamento dell’educazione al movimento e alla musica” (16) porta già in sé il principio dell’interdisciplinarietà. Naturalmente, come si è già visto nella parte di introduzione storica, ciò non avvenne, né mai avrebbe potuto, in una unica fase. Anzi: la parola stessa “interdisciplinarietà” non era certamente ancora in uso all’epoca della Günterschule di Monaco.Sta di fatto che, un passo dopo l’altro e proprio grazie al non essersi rinchiuso entro i confini rassicuranti di “metodo” ma di aver lasciato spazio a contributi continuamente in evoluzione, lo Schulwerk può dire – oggi più che mai – non tanto di dare spazio per principio metodologico a forme diverse di interdisciplinarietà, ma di vivere l’interdisciplinarietà come una portante intrinseca dei propri percorsi pedagogici. Tanto che, come verrà poi ampiamente trattato più oltre, lo Schulwerk trova proprio nella “performance integrata”, luogo di naturale interdisciplinarietà, il proprio esito didattico più peculiare.
Dunque, alla formazione dell’esperienza “musicale” di stampo schulwerkiano concorre tutto ciò che con la musica può avere incontri ed attinenze.

Il corpo - Innanzitutto vissuto nella sua funzione di “strumento” ritmico primario in quanto già legato a forti percorsi esperienziali del bambino. Il repertorio estremamente limitato e circoscritto dei primi gesti-suono si evolve oggi attraverso la pratica sempre più ricca della body percussion, cioè di tutte quelle forme di percussione corporea che, riunite in sequenze fantasiose, si traducono in vere e proprie coreografie sonoro-gestuali.Un mezzo assai potente per formare e consolidare, oltre alla mera capacità di esecuzione ritmica e quindi strumentale, la sicurezza e il coordinamento nell’uso del corpo, e con esso tutte le forme derivanti di sicurezza psicologica. Alla funzione strumentale si appaia quella motoria espressiva: il corpo dice, il corpo delinea, il corpo rappresenta, il corpo interpreta, il corpo mima, il corpo si moltiplica insieme agli altri corpi. Dal movimento espressivo libero alle forme strutturate il corpo dispone tutta la sconfinata area rappresentata dai linguaggi motòri.

La voce – Utilizzata a partire dalle sue espressioni fonematiche e inarticolate, sia quelle più grezze e primigenie che quelle sofisticatamente modulate, fino al nonsenso, alla parola, alla scansione verbale ritmica, al linguaggio, al canto, al coro. La voce, in quanto primo mezzo di esplorazione, sperimentazione e rapporto col mondo, è, nell’esperienza del bambino, uno strumento ancor più esperto e tecnicamente consolidato del gesto e ricopre all’inizio funzioni diversificate. La prima è quella di sostegno all’esperienza ritmica: la filastrocca, la conta scandita ritmicamente incarna già autonomamente una prima esperienza ritmica. Poi passa a sostenere il gesto ritmico, l’esecuzione ritmica strumentale, grazie al forte legame psicomotorio intercorrente fra gesto e parola. Sincronizzare la declamazione ritmica delle parole con l’esecuzione, gestuale o strumentale, del medesimo ritmo, significa dargli quella sicurezza, individuale o collettiva, che la sola esecuzione strumentale stenterebbe a raggiungere. In una successiva fase, invece, la scansione ritmica verbale viene messa in contrapposizione all’esecuzione strumentale (eseguo con la voce una filastrocca e col gesto-suono o lo strumento un’altra) così da portare ad un livello molto più elevato la capacità di coordinamento ritmico fisico e mentale: due ritmi complementari eseguiti dal medesimo soggetto. Si pensi a quanto questo già predisponga all’uso indipendente delle mani nello studio di un qualsiasi strumento o all’interdipendenza di funzioni motorie nello studio della batteria.

Lo strumento –Come vedremo anche nel paragrafo sull’ensemble, la dotazione strumentale dello Schulwerk non è più limitata a quella utilizzata fin dalla Güntherschule di Monaco: lo Strumentario a barre e quello ritmico cui si aggiunsero strumenti “poveri” e autarchici. Oggi l’ensemble ideale è composto, oltre che dal gruppo intonato degli strumenti a barre, che funge da blocco strumentale base di facile impiegabilità, anche da tutti gli altri strumenti disponibili: strumenti d’arte, strumenti elettronici, non esclusi gli strumenti digitali che possano essere funzionali a una determinata ricerca o a un determinato progetto.

Area visiva – A parte il circuito occhio-mano-suono-orecchio di cui si tratterà nel paragrafo sul rovesciamento dell’approccio didattico, ad essa appartengono tutte le forme di notazione: dalle notazioni intuitive (ascolto un suono e lo disegno) alla costituzione di partiture grafiche più o meno astratte o più o meno descrittive, fino alla notazione convenzionale. A ciò si aggiunge tutta l’area delle arti visive e plastiche: il disegno, la manipolazione di materiali e la loro interpretazione in suoni o musiche, sequenze fotografiche e video da commentare musicalmente oltre a tutta la parte scenografica e costumistica strettamente inerente alla realizzazione di performances scenico-musicali.

NATURA E FUNZIONE DELLA PRIMA IMPROVVISAZIONE IN AMBITO DIDATTICO SCHULWERKIANO

Improvvisare fa parte delle pratiche creative umane. Nella sua concezione più comune l’improvvisazione presuppone la conoscenza approfondita di un determinato linguaggio espressivo.  E’ una pratica “professionistica” che richiede il dominio del linguaggio e della tecnica tramite cui si improvvisa, sia che appartengano all’area verbale, motoria o musicale. Il danzatore che improvvisa necessita di un completo dominio del proprio corpo e delle proprie tecniche gestuali. Il poeta popolare che improvvisa in ottava rima (prassi ancora diffusa in alcune regioni dell’Italia centrale) oltre ad uno spiccato intuito per la combinazione dei versi possiede anche un suo consolidato repertorio linguistico e sintattico entro il quale riutilizza formule proprie che contribuiscono ad una sua personale caratterizzazione stilisticaUn po’ come il jazzista, che ad una approfonditissima conoscenza del relativo linguaggio armonico unisce l’utilizzo di un “data base” personale di moduli, di formule, di riffs che mette in gioco sul momento per svolgere il proprio percorso improvvisativo. Nella musica indiana, i suonatori di tablas o di flauti si formano su un linguaggio ritmico-melodico dettagliatissimo che fornisce la base per improvvisazioni di estrema raffinatezza. E analogamente, l’improvvisatore di area europea “classica” non potrebbe certo – come è ancora rara prassi – improvvisare a fine concerto una fuga, al pianoforte o all’organo, su tema dato dal pubblico, se non avesse una conoscenza approfonditissima del linguaggio tonale armonico, delle tecniche e delle varianti strutturali contrappuntistiche. Talvolta si dice che delle opere dei più grandi autori di un passato storico “certificato” dalla produzione scritta (Frescobaldi, Mozart, Haydn, Beethoven) non conosciamo che una parte ridotta, a fronte di tutto ciò che essi, nella prassi d’uso, produssero improvvisando. Al di là delle specifiche e soggettive doti di “creatore istantaneo”, indispensabili per chi esercita tale pratica, improvvisare significa dunque utilizzare estemporaneamente e creativamente un linguaggio ed una tecnica di cui si ha pieno dominio. Persino l’improvvisazione contemporanea “libera”, nata negli anni ’50 per liberarsi in modo più radicale possibile dai linguaggi e dai modelli formali e strutturali storici, non poteva sussistere senza una tecnica ed una concezione “anti-linguistica” che però si dotava via via di formule e di precetti soggettivi e collettivi.
Nella nostra concezione didattica l’approccio è radicalmente rovesciato. La prima forma di improvvisazione si concreta in una esplorazione assolutamente ignara. Né potrebbe essere altrimenti considerando la totale “innocenza” del bambino rispetto a elementi linguistici e formali, di cui possiede solo tracce intuitive o competenze “inconsapevoli”. L’area sulla quale esso si avventura – che si tratti di corpo, voce o strumento – gli è sconosciuta e l’improvvisazione diventa il tramite per la scoperta delle potenzialità espressive proprie e dello strumento di turno. E’ qui che la didattica musicale accademica incorre ancora e sempre nell’equivoco che si debba “prima imparar la musica” per poterla poi “fare”. Cioè imparare le note per poter suonare. Nel nostro caso, invece, il rapporto con lo strumento si rovescia. Non è il bambino a dire allo strumento “cosa fare” in base a conoscenze teoriche pregresse, ma è lo strumento a “insegnare al bambino”, a rivelargli le proprie potenzialità, a seconda dei modi in cui viene conformato e sollecitato. Ovviamente questo approccio improvvisativo non può avvenire in forma puramente arbitraria. Certo, anche in didattica una forma di improvvisazione completamente “libera” può avere il suo luogo, che è però quello del puro sfogo, della necessità di scaricare tensione, di recuperare attenzione: il momento del “chiasso”. L’approccio esplorativo va invece governato proprio perché possa condurre a scoperte fruttuose e significative. Per produrre questo effetto è essenziale rispettare tre condizioni:
1. Operare su un campo delimitato – Avere a disposizione per improvvisare l’intera e indiscriminata gamma di possibilità vocali, gestuali o strumentali, dopo un iniziale senso liberatorio di totale discrezionalità, finisce per produrre incertezza e insicurezza, non fornisce appigli strutturali, strumenti di caratterizzazione. Dunque andrà delimitato il campo (delimitazione di area) entro cui svolgere la propria esplorazione: un certo ambito di materiali verbali, vocali, motòri, strumentali. Ad esempio un ridotto gruppo di strumenti ritmici o la tastiera di uno strumento a barre cui si sia dato un assetto specifico (barre alla rinfusa, in sequenza disordinata, ecc.). Assetto che fa anche parte integrante della “delimitazione” del campo su cui si opera (delimitazione di forma), unitamente alla tipologia dei materiali ritmici, melodici o gestuali.
2. Operare in base a una o più regole –Ad esempio combinare un numero prefissato di segmenti motòri, scelti entro un ampio repertorio, al fine di realizzare una propria sequenza coreografica. O combinare sequenze di parole che contengano tutte una determinata consonante. Oppure eseguire un accompagnamento strumentale ostinato vincolato a una certa forma del gesto percussivo.
3. Fruire di un margine di discrezionalità soggettiva –I segmenti motòri vengono scelti a proprio gusto. Le parole vanno trovate o inventate senza altro vincolo che quello della consonante prefissata. Le note dell’ostinato sono a discrezione del singolo suonatore.
Via via che l’esplorazione improvvisativa procede l’innocenza iniziale viene sostituita da una progressiva consapevolezza, poiché lo scopo dell’esplorazione è sempre la conoscenza. Si acquisiscono e si razionalizzano elementi di linguaggio musicale e motòrio, ci si accosta alla notazione, alle capacità di lettura, di esecuzione, di riconoscimento percettivo. Ed è così che anche in ambito didattico si giunge a forme, sia pure molto elementari, di  improvvisazione consapevole, riproducendo in modo molto più semplificato quel rapporto con la creazione estemporanea che è proprio della prassi professionistica.

LA COMPOSIZIONE ELEMENTARE

Scrive Carl Orff:”… musica elementare, strumentario elementare, forme verbali e motorie elementari. Cosa è elementare? Elementare, in latino elementarius, significa intrinseco agli elementi, alle sostanze primarie, primordiale, affine alle origini. Proseguendo, cos’è musica elementare?Musica elementare non è mai musica sola, essa è collegata a movimento, danza e parola, è una musica che ciascuno si fa da sé, nella quale si è implicati non come ascoltatori ma come co-esecutori. Essa è pre-intellettuale, non conosce grandi forme né architettonica, produce ostinati, piccole forme ripetitive e di rondò. Musica elementare è terrestre, innata, corporea, è musica che chiunque può apprendere e insegnare, è adeguata al bambino”. (17)
Dunque per composizione “elementare” nella concezione schulwerkiana non si intende una composizione “facile” o “facilitata” (latino: facilis) secondo una accezione acquisita successivamente da questo termine. Non si intende la semplificazione ad uso infantile di qualcosa di musicalmente troppo complesso per la sua inesperienza: ad esempio, la trascrizione di un brano classico in forma accessibile ad un suonatore in erba. Si intende invece una forma compositiva accessibile in sé, in quanto nata dal trattamento di elementi primari, cioè concepibili, comprensibili e praticabili da parte di un bambino.
Dall’enunciato sinottico di Orff è indispensabile ricavare un quadro più articolato della concezione “elementare”, così come essa si è andata arricchendo e trasformando anche alla luce della costante evoluzione e modernizzazione della ricerca psico-pedagogica.  In effetti l’idea orffiana mirante a recuperare una “elementarità” smarrita dei primordi già contiene – se letta con sguardo progressivamente aggiornato – i presupposti basilari tuttora vigenti per una corretta pedagogia musicale. Elementarità non significa per noi oggi primordialità (o, non sia mai, primitivismo), quanto piuttosto primarietà, prototipicità degli elementi impiegati per la creazione musicale elementare, che possono tranquillamente non appartenere ad alcun tipo di tradizione culturale. Un elemento primario - sia esso ritmico (verbale, strumentale o motòrio) o melodico (vocale o strumentale) – è un elemento dotato di  un minimo indispensabile di “senso”. Prendiamo il caso del ritmo. Un impulso ritmico isolato non è dotato di senso: è un punto sonoro smarrito nello spazio. Ma due punti, due valori ritmici in successione costituiscono una relazione (quale che sia il tempo che li distanzia) e quindi producono senso: ritmico, appunto. Così è per una nota isolata rispetto a una coppia di note, siano esse in successione o sovrapposte (senso armonico).
Queste combinazioni, queste cellule primarie sono appunto gli elementi con i quali costruiamo la nostra musica. Sono i nostri mattoncini, da combinare o sovrapporre nelle successioni che preferiamo. E’ il gioco musicale delle costruzioni. E’ il gioco musicale del Lego. Niente di più adatto ai bambini che sono dei grandi costruttori e strutturatori. Un gioco che non nasce da astrazioni teorico-manualistiche ma dall’uso di entità concrete, manipolabili, anche perché presentate in forma di oggetti: fogli, cartoncini, tavolette magnetiche, dadi, cubi, che evidenziano il tipo di elementi che via via usiamo per le nostre composizioni. Una concezione assai lontana da quella retorica e “romantica” della composizione come “ispirazione”, che immagina il Grande Autore, con foglio e penna d’oca in pugno, viso lievemente sollevato, raggiunto dal raggio luminoso che già contiene l’opera. Anche perché neppure in quell’ambito la concezione risponde alla realtà, che presuppone sempre una grande fatica elaborativa.
La procedura compositiva elementare, porta in sé, attraverso il principio della strutturazione per cellule, una forma evidente di approccio globale (ecco un’altra delle attualità pedagogiche contenuta nelle premesse schulwerkiane), analogamente a come, nell’apprendimento della lingua e della scrittura, si è giunti a cominciare, dopo le lettere dell’alfabeto e poi i fonemi, dalla parola nel suo insieme: dal “geroglifico” che per il bambino rappresenta la “casa”, il “gatto”, e così via. Le cellule sono le parole ritmiche, le parole melodiche, le parole gestuali mediante cui costruire i nostri “discorsi” musicali e motòri.
Anche per la composizione elementare vigono le tre condizioni presentate per l’improvvisazione, il cui rispetto garantisce sempre una equilibrata combinazione di motivazione partecipativa e caratterizzazione del risultato musicale. Facciamo un esempio in ambito metrico binario:
1. Area delimitata – Un numero prefissato di cellule ritmiche binarie basilari.
2. Regole – Disporre quattro di queste cellule in successione, curando che l’ultima abbia senso ritmico conclusivo.
3. Margine discrezionale – Scelta soggettiva del tipo di cellule e della loro disposizione.
Impostata in questo modo la composizione ritmica elementare fornirà sempre risultati formalmente garantiti, impensabili se si cercasse di affrontarla a partire dalla conoscenza teorica e convenzionale dei meri valori ritmici.
Volendo enumerare i comportamenti compositivi fondamentali implicati in questa procedura compositiva, possiamo parlare di: reiterazione (l’ostinato), giustapposizione, alternanza, scambio, combinazione, permutazione. Tutte operazioni che appartengono alle procedure compositive di ogni epoca. La progressiva acquisizione di competenza porterà anche alla procedura della variazione di un elemento dato, che è quella più evoluta. La procedura basilare è tuttavia quella della reiterazione, cioè dell’ostinato, spesso criticato come forma di strutturazione eccessivamente primitivistica. Non c’è dubbio: va però anche detto che la reiterazione è la prima forma di strutturazione intuitiva, che si nobilita in funzione di stimolo e sostegno per l’improvvisazione e che non è affatto estranea a forme attuali di musica d’uso. La ripetizione ostinata ritmica, melodica e armonica a volte volutamente ossessiva è all’ordine del giorno nel rock e nel popular in genere, così come la reiterazione sta a fondamento della musica minimalista (Philip Glass, Steve Reich) o di altri sofisticati modelli praticati dalla composizione contemporanea. In generale l’uso cellulare dell’elemento, del modulo, del riff appartiene a tutti i generi musicali d’uso, a partire storicamente dal jazz. Il cui giro armonico non è altro, in fondo, che un grande ostinato che serve di base per le singole improvvisazioni.
In definitiva, la composizione elementare è di fatto una forma di composizione su base modulare e combinatoria che, fatta salva la maggiore o minore qualità linguistica e stilistica derivante dal tipo e dalla qualità del materiale impiegato e dalla capacità e qualità dell’elaborazione che se ne ricava, garantisce un accesso praticabile al bambino, senza avere nulla di arretrato o improprio dal punto di vista concettuale rispetto ai linguaggi musicali storici o correnti.


ROVESCIAMENTO DELL’APPROCCIO: CAMPI GARANTITI e “NO ERROR”

“Rovesciare l’approccio” con la musica è in realtà un altro modo per indicare l’avvio del rapporto con la musica a partire dall’esperienza invece che dall’astrazione teorica. La nostra linea pedagogica è costellata di questi rovesciamenti. Va però chiaramente inteso che partire dall’esperienza non significa immergersi a casaccio nel mondo dei suoni e continuare ad aggirarvisi senza cognizione alcuna, ma implica il ricorso a ben delineate coordinate metodologiche che incanalino questo approccio decisamente empirico e intuitivo e la sua progressiva evoluzione verso l’acquisizione di abilità e competenze portate a livello di consapevolezza e razionalità. Ciro Paduano ha chiaramente sintetizzato nella tabella che segue le forme basilari di questi rovesciamentii:


-Da un idea di Doug Goodkin, elaborazione e estensione di Ciro Paduano-

Partire da un “approccio rovesciato” – cioè dall’esperienza quindi dall’”esplorazione” - significa anche iniziare un rapporto con dei mezzi di cui ancora non si conoscono la qualità e le potenzialità. Ciò rende necessario, per far sì che l’esperienza sia un effettivo veicolo di apprendimento, il ricorso a procedure che garantiscano, per ogni area di intervento e quindi con diverse specificità, la fruttuosità dell’esplorazione attraverso l’osservazione e la produzione. Qui di seguito alcuni esempi riferiti ad alcune aree dell’esperienza prettamente musicale le quali, in ragione del loro legame con un linguaggio storicamente codificato, presentano particolari esigenze e difficoltà. Se, infatti, il “gioco” sonoro non formalizzato (stabilire relazioni percettive o creative con i suoni degli oggetti, del corpo, di strumenti autarchici, del mondo circostante) risulta tutto sommato abbastanza accessibile, è nel momento di affrontare “le note” e la loro scrittura convenzionale che ci si può trovare disarmati e finire per ricorrere (dionescampi!) al solfeggio parlato: “di buona memoria” – si desidererebbe tanto poter dire – ma, ahimé, ancora purtroppo di “triste attualità”.

La “reinvenzione” degli strumenti a barre –
E’ il primo dei tipici “rovesciamenti” d’approccio del nostro percorso che consente una effettiva forma di esplorazione su un area così chiaramente delineata sotto il profilo linguistico-strutturale. Presentare a dei bambini lo strumento nella sua disposizione regolare – con le barre in scala – significa metterli a confronto con un sistema strutturato che essi non conoscono né teoricamente né tecnicamente e dal quale, perciò, non possono che ricavare esperienze sonore inadeguate: nel senso che essi stessi percepiranno che si tratta di esperienze sonore non rispondenti alla forma e alle potenzialità della scala.
Orff si era già posto il problema, prevedendo che – grazie alla estraibilità delle singole barre dal corpo del risonatore – al suonatore di turno potessero venir messe a disposizione le sole barre necessarie alla realizzazione musicale corrente. Tuttavia un tale procedimento, più che una vera “esplorazione” dello strumento rappresenta un progressivo “disvelamento” delle sue proprietà linguistico-strutturali: sotto alla parziale disponibilità di note, che viene di volta in volta modificata o progressivamente incrementata, si cela comunque – immanente – la realtà della scala come un intero.
Il nostro approccio è allora quello di cominciare da uno strumento completamente smontato, da trattare come una “scatola di costruzioni” i cui pezzi vanno rimontati a piacimento in forme di gioco puramente senso-motorio, o di gioco simbolico attraverso la costruzione – che ai più grandicelli viene spontanea – di forme conosciute: case, elicotteri, torri, ponti distrutti, ecc. Forme comunque da suonare (stiamo pur sempre manipolando strumenti musicali!) per scoprire cosa esse offrano in termini timbrici, ma soprattutto per “giocare” con la fenomenicità del suono e delle sue mille manifestazioni sensibili. Forme da suonare non a partire da impossibili premesse teorico- o tecnico-musicali ma da comportamenti gestuali, ritmici o no, che intuitivamente trasmetteremo allo strumento attraverso i battenti. Gesti che non vengono motivati da presupposti di tipo musicale ma di tipo visivo. Non cercherò di suonare delle note, ma suonerò la forma che io stesso ho costituito e che mi si para davanti, scegliendone inizialmente i punti più evidenti e attrattivi, i punti emergenti. Il gesto percussivo, attratto o respinto dalle sonorità che vado scoprendo, ripete dei percorsi, diventa suono più o meno organizzato, reiterando un circuito comportamentale vedo-percuoto-valuto-cambio o ripeto o, altrimenti espresso, occhio-mano/battente-suono-percezione-senso estetico. Ed in quanto nata da un comportamento invece che da una precisa prescrizione, l’azione si fa gioco e il gioco si fa musica. Come a dire: il gioco come sostanza della musica e non come un “trucco” per far accostare il bambino ad una materia musicale ostica. Le forme da inventare via via si evolvono: barre disposte in un ordine a caso sul risonatore e da suonare in successione per affrontare – a rovescio – il principio della scala; barre disposte da sinistra a destra in modo da visualizzare l’ottava (DO-do, RE-re, ecc.) o la triade (DO-SOL-mi, RE-LA-fa, ecc.), sempre attuando poi percorsi di esecuzione coordinata di queste “forme” di strumento reinventate che producano strutture sonore variamente organizzate. La nostra musica. Eccoci entrati così addirittura nei modelli strutturali del sistema che ci forniscono una conoscenza e una competenza subito molto più avanzate di quanto mai non potrà il freddo approccio attraverso la carta scritta.

Composizione ritmica –
Immaginiamo di voler procedere a forme di composizione ritmica dopo aver appreso sulla carta, magari anche solfeggiando un po’, i valori più usuali del nostro sistema musicale: diciamo minima, semiminima e croma. Aiutiamoci pure con le tradizionali sillabazioni di stampo kodaliano - Ta-a, ta e ti – e procediamo alla costruzione di una sequenza ritmica – improvvisata o scritta – alternando e coordinando a piacimento i valori che conosciamo. Ovviamente il nostro senso della “frase ritmica” non è ancora così sviluppato da poter giungere a risultati formalmente risolti. “Ta-a ta ta ta ti-ti ti-ti ta ta Ta-a…”: ci smarriremo con facilità.
Partiamo ora invece dal principio” elementare”: la nostra esperienza ritmica è agganciata alla scansione verbale di filastrocche adatte a questo scopo. La più nota: An dan / tike tan / se me / compa rè / ale lake / pume te / BIS! (18) da me reperita e utilizzata per la prima volta nel Manuale della rielaborazione italiana dell’Orff-Schulwerk (1979) e poi ripresa da altri autori in molti testi didattici, è assai funzionale al nostro scopo (tanto che la riutilizzo da allora costantemente) in quanto integralmente costruita da puri suoni verbali privi di significato comune.
Ogni segmento di questa conta costituisce una cellula ritmica caratterizzata. Alcune sono ritmicamente identiche (An dan e se me, tike tan, pume te e compa re) e quindi possiamo ridurre il nostro materiale a quelle foneticamente più incisive: An dan, tike tan, ale lake e Bis! ottenendo così quattro delle cinque cellule elementari binarie basilari. A queste aggiungiamo la quinta cellula, tan tike, ottenuta dal rovesciamento di tike tan. A queste aggiungiamo la quinta cellula, tan tike, ottenuta dal rovesciamento di  tike tan. Ognuna di queste cellule va intesa e utilizzata come assolutamente indivisibile in quanto ci offre il grande vantaggio di contenere già in sé il principio metrico binario e, con esso, un controllo già “predisposto” e in qualche modo “garantito” dell’andamento ritmico. Ora componiamo ritmi di quattro cellule attenendoci alle tre condizioni già esposte nei capitoli sulla composizione elementare e sull’improvvisazione: dall’insieme delle cinque cellule (campo delimitato per quantità e forma “binaria”), sceglierne quattro e metterle in una successione a piacere (margine di discrezionalità soggettiva), curando che l’ultima della sequenza sia Bis! o tike tan in quanto aventi senso conclusivo (una o più regole). I ritmi vengono composti con le parole, che forniscono una assoluta sicurezza all’andamento in quanto, oltre che già “metrizzate”, facenti parte di una esperienza molto più consolidata nel bambino rispetto a quella dell’esecuzione puramente gestuale o strumentale.
Procedendo in tal modo la appropriatezza del risultato è assicurata dalla procedura stessa. Combinare quattro cellule differenziate ma omogenee non potrà che portare a un ritmo formalmente corretto e sufficientemente articolato, quale che sia la combinazione prescelta. Mettiamo in successione quattro di questi ritmi e avremo un ritmo di sedici battute binarie, ineccepibile nel suo incedere fraseologico, di grande ricchezza verbale (e quindi assai adatto al gioco ritmico-verbale), che ci troveremo ad aver composto “senza saperlo". Forse anche uno studente di musica alle prime armi si troverebbe in difficoltà a comporre sequenze ritmiche così equilibrate. Per noi è l’atto stesso del comporre vincolato alle semplici tre prescrizioni, cioè inquadrato nel “percorso di garanzia”, che ci insegna come si fa. E’ l’atto stesso del costruire, del comporre che ci inculca il senso della frase regolare. E’ di nuovo il “rovesciamento” dell’approccio che ci consente di entrare immediatamente nell’atto dell’invenzione e della produzione musicale fornendoci come conseguenza del nostro operare competenza e abilità.

Pentafonie –
Il discorso si fa assai interessante quando si entra nel campo della musica intonata, nell’area della melodia e dell’armonia, che è la vera area critica per un approccio musicale “rovesciato”. Come poter prescindere da un preventivo apprendimento delle note se si vuole sviluppare una improvvisazione melodica, costruire un accompagnamento a un canto? Qui il ruolo di garante dei risultati spetta al sistema delle pentafonie, cioè a quelle scale modali “difettive” rispetto alle nostre scale modali o tonali, di cui è modello primario la scala pentatonica cinese. Un mini-sistema di scale, che comprende anche una pentafonia lidia e una dorica sulle quali non mi dilungherò qui, ciascuna delle quali possiede la proprietà di tollerare la sovrapposizione di tutte le cinque note che la compongono. In altre parole di consentire una armonia “praticabile” quale che sia la quantità delle note impiegate e la loro disposizione verticale. Significa – in altri termini – che possiamo impiegare tali scale suonando in gruppo e con ampia libertà individuale di scelta delle note senza che ciò possa pregiudicare l’insieme armonico. Ancora una volta vigono le tre regole preventive a garanzia di un risultato strutturato. Un esempio: impostati gli strumenti a barre su una scala pentatonica cinese (campo delimitato), ogni suonatore sceglie liberamente tre note  (margine di discrezionalità soggettiva) e le ripete in ostinato, sempre nella medesima successione in tempo ternario isocrono (una o più regole). Otterrò così un accompagnamento statico – per ora molto “grezzo” ma funzionante – istantaneo e “corale”, che potrà servirmi per un canto o per una improvvisazione melodica svolta a turno.Anche qui con la garanzia che qualsiasi melodia mi “esca dai battenti” sarà sempre compatibile con la base armonica. Il passaggio di ciascun suonatore ad altre tre note, ad un segnale concordato, modificherà istantaneamente e imprevedibilmente il rivolto armonico mantenendone però l’appropriatezza, e sarà fonte di forte e immediata varietà sonora.
Una siffatta procedura mi impedisce praticamente di “sbagliare”. Cioè di commettere errori “oggettivi” (mi era stato prescritto di suonare un DO e ho suonato un RE): il che genera sicurezza, autostima, spontaneità e flessibilità d’azione. E continua a produrre esperienza e anche tecnica (a forza di esplorare le mie mani diventeranno sempre più esperte nel maneggio dei battenti), sulla quale potrò poi basare le mie scelte musicalmente sempre più consapevoli e correggere gli eventuali “errori” soggettivi (volevo suonare quella barra e sono “cascato” su un’altra che mi da’ un effetto che mi piace di meno). Ancora una volta è lo strumento, inserito in un percorso “protetto”, a insegnarmi “come si fa” e quali sono i funzionamenti primari della la musica.
Ma, nel caso delle pentafonie, c’è anche di più. Immaginiamo di essere già dotati di una certa esperienza e di realizzare il nostro accompagnamento collettivo sovrapponendo veri e propri ostinati melodici, per esempio di due battute in tempo binario: vale a dire che ciascun suonatore inventa una breve melodia di quattro tempi che ripete identica, reiteratamente. Ciascun ostinato è ovviamente dotato di una sua articolazione ritmica omogenea al tutto ma individualmente differenziata. Dalla sovrapposizione di tutti gli ostinati otteniamo un flusso armonico – pentatonico, lidio o dorico – con una articolazione ritmica e contrappuntistica interna molto variegata. Ciò vuol dire che stiamo unendo in un unico processo le due forme basilari di pensiero musicale: pensiero orizzontale e pensiero verticale. Non altro – sia pure a livello elementare - che l’esperienza storica della nascita dell’armonia dall’evoluzione del contrappunto. Una acquisizione quasi subliminale, anch’essa in forma di approccio “rovesciato”, che apre e dispone la nostra mente musicale in crescita ben più di quanto non possa farlo la pura e semplice prassi armonico-accordale di uso comune e predominante nella nostra cultura.

PERFORMANCE, ENSEMBLE, FOLCLORE

Performance, Ensemble e Folclore sono tre argomenti strettamente collegati tra loro, che riguardano le funzioni della performance nella didattica orffiana, il modello di ensemble strumentale che la sostiene e il tipo di materiale che ne costituisce il contenuto musicale. Li tratterò per ordine.

La performance - Non tutti i didatti riconoscono alla performance una valenza formativa. Uno degli argomenti contrari si concreta solitamente nel ravvisarvi elementi di competitività, di confronto antagonistico, intesi come aspetti negativi che ostacolano una socializzazione equilibrata, conducono a marcate forme di dissidio interindividuale, provocano tensioni e forme di esplicita sottovalutazione. Un complesso di emozioni, cioè, che contrastano con l’obiettivo di un armonico comportamento scambievole fra gli appartenenti al gruppo-classe. È indubitabile che ciò possa avvenire, ed è altrettanto certo che tali tendenze turbative, spinte anche fino alla provocazione, sono abbastanza comuni all’interno del gruppo scolastico, quale che sia l’attività svolta. Ciò avviene soprattutto in presenza di un insegnante che abbia una qualche difficoltà a stabilire in prima persona un rapporto convincente e forte coi propri allievi e a governare, spingendoli ad armonizzarsi reciprocamente, la complessità di rapporti che fra essi si sviluppa. La soluzione non è certamente nel tentare di livellare – per così dire – le situazioni individuali così che “il più bravo” accetti di essere talvolta mortificato (“zitto tu che lo sai già”) e che il “meno bravo” venga sopravvalutato  o protetto. La soluzione sarebbe (e si sottolinei il “sarebbe” perché sappiamo bene che “dal dire al fare…” con tutto ciò che segue) non di armonizzare i comportamenti su un piano di impossibili “parità” ma piuttosto di contemperarli all’interno di una sfera di “differenze” entro la quale sia il “più bravo” che il “meno bravo” possano trovare una loro soddisfacente collocazione, esente da mortificazioni.
Non c’è dubbio che si tratti di un compito assai difficile, soprattutto nell’ambito di insegnamenti più strettamente  vincolati al raggiungimento di almeno un tanto di obiettivi comuni, quali possono essere quelli linguistici, scientifici o anche storico-antropologici. Ma l’attività musicale – grazie al cielo – se impostata in modo non accademico (“alla fine del tal ciclo si dovranno saper leggere e eseguire ritmi in… leggere e intonare una melodia in ambito di… eccetera), è quella che più di ogni altra consente una integrazione di competenze anche assai diversificate. Ciò può avvenire se in luogo di una didattica degli “obiettivi” si pratichi correttamente una didattica dei “percorsi”. Se invece – cioè – di mirare al “cosa” (l’acquisizione di quelle determinate competenze uguali per tutti) si privilegia il “come” (i modi in cui si raggiungono competenze differenziate tra soggetto e soggetto). Intendiamoci: non è che il percorso escluda l’obiettivo. Volendo racchiudere in un sintetico dispositivo metodologico gli estremi del necessario equilibrio fra obiettivo e percorso, si potrebbe dire che un progetto didattico debba avere:
1. Abbondanti obiettivi formativi generali
2. Ristretti, ben mirati e raggiungibili obiettivi tecnici comuni
3. Ricchezza di percorsi
A partire da questa impostazione la performance è il luogo naturale di raccolta di quanto svolto ed elaborato nel corso dell’attività. Innanzitutto perché è luogo fortemente interdisciplinare, comprendendo motoria e danza, ogni possibile tipo di intervento musicale, scenografia e costumistica. Ma soprattutto perché consente di unire in un medesimo compito unitario e collettivo sia la disinvoltura di chi è in grado di esibirsi in un assolo, sia la titubanza di chi – si fa per dire – non si sente di andar oltre a un colpo di triangolo. Ma anche – e questo vale ancora di più - la superata titubanza di chi non avrebbe mai pensato di sapersi esibire in una parte autonoma. Nell’alveo della performance c’è posto per tutti e per tutto, compreso – funzione importantissima – l’inserimento del diversamente abile.
A questo insieme di proprietà sono collegati una quantità di vantaggi formativi generali: imparare a coordinarsi ma anche a distinguersi nel gruppo; superare il possibile timore dell’esibizione; ritrovarsi in grado di contribuire a un risultato tecnico ed espressivo più elevato di quanto singolarmente non si sarebbe capaci. Oltre a tutto ciò, il grande valore aggiunto della performance sta infine nel costituire il momento della definitiva e consapevole acquisizione delle competenze raggiunte: so farlo, so mostrarlo, la mia capacità  viene riconosciuta dagli applausi, ora ne sono davvero capace. E’ una sensazione di acquisita coscienza e sicurezza che si manifesta esplicitamente in quei gesti di soddisfazione che spesso i ragazzi ostentano a conclusione della loro prestazione: un moto deciso delle braccia, della testa, del corpo intero, un salto.

L’ensemble integrato – Non c’è dubbio che una delle più fortunate invenzioni del percorso schulwerkiano sia quella dello strumentario a barre, oggi più che mai diffuso malgrado sia stato spesso ritenuto superato, soprattutto con l’avvento della strumentazione elettronica. Va detto che una distorta mentalità commerciale ha dato luogo talvolta a massicci tentativi di introduzione smaccatamente anti-pedagogica della strumentazione elettronica nella scuola. Il sogno mercantile di “una tastiera per ogni allievo” ha prodotto mostruosità, per fortuna solitamente superate. Un sogno che corrisponde in realtà ad una prassi didattica radicalmente opposta a quella dell’”ensemble”. Che si tratti di una tastiera elettronica, di una clavietta, di un flauto dolce o di un violino per ciascuno allievo, l’idea di uno strumento uguale per tutti sul quale imparare collettivamente prima le note poi a eseguire le medesime melodie risponde ad una prassi didattica più massificante che collettiva e socializzante.
Lo strumentario, in verità, essendo tuttora un veicolo assai efficace della diffusione del nome di Orff è stato spesso scambiato per il “metodo” stesso. Imparare, pur seguendo specifiche procedure didattiche, ed eseguire musiche elementari, orffiane o no, con lo strumentario a barre intonate, fu spesso praticata e intesa come una adeguata e sufficiente applicazione dello Schulwerk. A partire da questa restrizione metodologica si giustifica il fatto che lo strumentario venisse percepito come uno spazio musicale troppo angusto e sacrificato, troppo datato, troppo caratterizzato.
Questa visione e quest’uso dello strumentario sono ampiamente superati. Oggi gli strumenti a barre non sono che il corpo intonato, praticabile ed accessibile anche ai livelli più inesperti - mediante adeguate forme d’approccio - di un insieme aperto tutti gli strumenti musicali di cui il gruppo dispone. Strumenti elettronici, strumenti d’arte, strumenti folclorici, strumenti autarchici, prendono parte all’ensemble a seconda del prodotto musicale cui si mira. Nella ritrovata popolarità generale della percussione, lo strumentario si rivela quanto mai adeguato alla sensibilità giovanile corrente, offrendo in più quelle proprietà di chiarezza e maneggevolezza (l’impostazione diatonica dei modelli base, la possibilità di estrarre e sostituire le barre a seconda delle esigenze) sempre assai utili in ambito didattico.

Uso del folclore, ovvero: qual è oggi il nostro “popular” – Il collegamento privilegiato col folclore, in particolare quello del proprio Paese, ancor più della propria Regione, fu in origine uno dei caratteri distintivi della seconda prassi schulwerkiana: quella delle trasmissioni alla Radio Bavarese. In esso Orff ravvisava da un lato il mantenimento di una tradizione a rischio di progressiva estinzione e il recupero del mistero e della magia di linguaggi arcaici, dall’altro l’adeguatezza alle esigenze del bambino di un linguaggio essenziale e nitido come quelle delle conte e dei canti infantili, strettamente unito a forme accessibili e ben stagliate. Il ricorso a tale repertorio fu tuttavia, fin dall’inizio, esente da pretese filologiche eccessive. Non sempre il materiale popolare offre modelli compiutamente adeguati a ciò che l’una o l’altra operazione metodologica, soprattutto al livello iniziale, richiedono. Una complicazione ritmica o melodica di troppo, una “deviazione”  formale o strutturale rispetto al modello cui si mira, e via dicendo.
Caso emblematico di questo rapporto flessibile col materiale popolare fu proprio quello del repertorio pentatonico, uno dei capisaldi del primo e dell’odierno Schulwerk. Il Nord-Europa non ha la stessa ricchezza di materiali pentatonici dell’Est europeo. Così, per sua stessa ammissione, ove si rese necessario mantenere al materiale melodico la funzionalità pentatonica richiesta nella primissima fase di attività, Orff, e con lui la Keetman, non esitarono a intervenire abilmente per adattare il materiale popolare o per produrne di “originale”.
D’altra parte è la stessa natura evolutiva del repertorio popolare a giustificare una operazione di questo genere: un repertorio soggetto a continue modificazioni che si producono nell’uso in diverse aree geografiche e in situazioni diverse. Innumerevoli sono le varianti  reperibili dei canti o delle filastrocche più diffuse e popolari e costantemente soggette a ulteriori modificazioni. Quindi, se un atteggiamento filologico e scientifico è d’obbligo per il ricercatore etnomusicologo, quale astratta esigenza filologica dovrebbe invece impedire di operare su un materiale popolare delle modifiche che siano funzionali ad uno scopo didattico?In certo senso, la didattica prescinde dal rispetto per il prodotto musicale originale, sia esso d’autore o folclorico. Essa si appropria del materiale modellandolo, trasformandolo, adeguandolo a seconda delle proprie esigenze. In altre parole, la nostra didattica non mira a “riprodurre” modelli dati ma a “produrre” elaborazioni proprie.
A rafforzare questa impostazione giunsero osservazioni critiche verso un uso angusto del folclore. Che senso poteva avere riallacciarsi in modo troppo preferenziale o addirittura esclusivo alla tradizione locale, per un bambino sempre più inurbato, che stava cambiando giochi, e soggetto all’influsso sempre più diffuso e via via dilagante delle più svariate tecnologie? Ci fu anche, fin dalle prime esperienza tecnologico-musicali, chi ritenne di vedere nei nuovi mezzi elettronici una potenzialità destinata a sostituire integralmente gli strumenti acustici, propugnandone, anche in ambito didattico, l’avvento esclusivo.Ma l’evoluzione musicale degli ultimi decenni ha smentito tali ipotesi, così come ha ridimensionato l’ipotesi che il gioco urbano e tecnologico potesse sostituire quello corporeamente ritmato delle scansioni verbali, dei gesti e dei canti. Ma andando ben oltre l’ambito tecnologico, che senso poteva avere confinare entro un ambito locale un bambino che i media e la rapida evoluzione dei trasporti mettevano  in comunicazione sempre più ampia con il mondo intero?
Di conseguenza, ciò che più interessa oggi ai nostri percorsi metodologici non è tanto il mantenimento o il recupero di “una” determinata tradizione quanto la conoscenza “delle” tradizioni. Più oltre, quello che vale di un materiale ritmico, melodico o corporeo-gestuale non è l’appartenenza in sé a quel determinato ceppo culturale, ma la sua qualità fonetica, melodica, formale e strutturale, la sua adeguatezza a un determinato scopo didattico esercitativo o conoscitivo, la sua appropriatezza e potenzialità rispetto allo scopo di una elaborazione autonoma. C’è in questa prospettiva una grande apertura verso le fonti di reperimento dei materiali (per i quali non esiste più confine geografico) e allo stesso tempo una loro ben delimitata riacquisizione “domestica” nell’ambito del gruppo che se ne servirà per un proprio scopo creativo. Il “nostro” popular, dunque, si concreta nella realizzazione di un prodotto di “quel” gruppo-classe, in “quel” determinato momento della sua evoluzione tecnica e linguistica, con le sue competenze e potenzialità e la sua strumentazione, a partire da una fonte proveniente da una qualsiasi parte del globo terracqueo, sia essa etnica, folclorica, jazzistica, popular, classica o… autarchica.

QUALE INSEGNANTE?

L’insegnante schulwerkiano dev’essere in primo luogo una “personalità didattica”. Qualche anno fa, nel corso di un Convegno ministeriale a Castiglion della Pescaia, Carlo Delfrati osservava, assai acutamente e polemicamente, come in didattica non sia previsto il “virtuoso”, al pari di quello strumentistico. Ecco. Il nostro insegnante dovrebbe essere questo: un Paganini della pedagogia musicale. Fuor di paradosso, un insegnante che abbia bisogno dei libri come di un nutrimento per la propria crescita e non come un supporto diretto per l’unità didattica di oggi e di domani. Un insegnante che sia capace di diventare ogni giorno il proprio libro di testo, il “metodo” di se stesso. Perché non si può “insegnare” qualcosa che non si abbia dentro di sé e in cui ci si riconosca.
Innanzitutto, quindi, un insegnante che sappia manovrare soggettivamente e “schulwerkianamente” la materia didattica, quella sperimentata, nota e quella potenziale, ancora e sempre tutta da inventare.
Un insegnante che, entro le tracce indicate dallo Schulwerk esistente, sappia elaborare la propria linea pedagogica, una propria prassi metodologica, una propria personalità didattica. Un insegnante propositore e inventore, non un riproduttore.
Un insegnante che non svolga le proprie attività andando da pagina x a pagina y ma che trovi nelle pagine elementi da rimanipolare per i propri progetti e per i propri obiettivi.
Un insegnante che abbia un progetto ben delineato ma non ferreo e una grande capacità di conduzione e coordinamento del gruppo: pronto ad accogliere tutte quelle “deviazioni” creative che gli vengono dal gruppo (o da se stesso) nel corso dell’attività.
Un insegnante, quindi, che sappia fare e far fare, ma anche “lasciar fare”. Che sappia, cioè, maturare la capacità di esporsi, di mettersi in gioco “senza rete”, spingendo i bambini anche a quegli innesti imprevisti – che lui saprà coordinare e armonizzare nel processo in atto – dai quali nascono le divergenze creative rispetto al progetto e al percorso, e quindi le innovazioni, le scoperte, i nuovi percorsi.
Un insegnante che sappia non omogeneizzare forzosamente (tu zitto perché sei troppo bravo, tu zitto perché stoni) ma armonizzare nell’insieme le diverse abilità e competenze che in un gruppo sempre convivono.
Un insegnante capace di maturare un rapporto vero e aperto con la propria tribù scolastica.
Tutte queste capacità sono – in definitiva - strettamente connesse a quel “saper imparare” che è momento fondamentale dell’attività didattica. Saper imparare da ciò che si riceve, che emerge dal gruppo, raccogliendolo, immagazzinandolo, riesplorandolo e rielaborandolo dentro di sé così da rinnovare costantemente la propria ricchezza progettuale.
E’ un insegnante – quello descritto – che, sia pure affrontando le pesanti difficoltà emotive ed organizzative che oggi vanno affrontate nella scuola in conseguenza delle continue e marcate trasformazioni sociali del nostro tempo, non sia annoia, anzi, si diverte nel condurre il proprio gruppo attraverso le più svariate esperienze musicali. Perché se l’insegnante non è il primo ad appassionarsi alle proprie proposte e a divertirsi nel proporle e nel coordinarle, non “insegna” nulla. La noia e la distanza non comunicano.
Che tipo di preparazione professionale si chiede a un siffatto insegnante?
Dal punto di vista generale una buona formazione umanistica e psicologica.
Dal punto di vista musicale, meglio un’esperienza polistrumentistica di livello medio (percussioni, tastiera, strumento a fiato) che un diploma strumentale conservatoriale.
Competenze pratiche nel campo dell’improvvisazione.
Conoscenze sperimentate di tipo compositivo accademico (tecnica contrappuntistica e armonica) e sperimentale.
Esperienza di coordinamento e direzione di un gruppo.
Dal punto di vista umano: una fortissima motivazione a misurarsi con la crescita degli altri, con le funzioni basilari della socializzazione e dell’integrazione, una convinzione assoluta nel fatto che la musica sia, tra tutte le altre materie di studio, la più formativa sotto ogni punto di vista – intellettivo, percettivo ed emotivo – a livello individuale e sociale.